L’Ajace del Foscolo (1961)

W. Binni, L’«Ajace» del Foscolo, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 65°, serie VII, n. 2, Firenze, maggio-agosto 1961, pp. 223-246; poi raccolto nella seconda edizione, ampliata e corretta, di Id., Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi, 1967, pp. 119-146 (edizioni successive: 1972, 1975, 1980, 1990); infine ristampato in Id., Ugo Foscolo. Storia e poesia cit., pp. 146-179.

L’«Ajace» del Foscolo

La recente edizione critica delle tragedie curata dal Bezzola[1] suggerirà, penso, nuove letture e nuove osservazioni su questo aspetto meno considerato dell’attività foscoliana, e pure, a ben guardare, assai considerevole sia per la funzione che i tentativi tragici hanno nello sviluppo della personalità del poeta, sia per una distinzione dei risultati e del significato delle varie tragedie: distinzione che porta chiaramente a porre in forte rilievo la profondità e la ricchezza poetica dell’Ajace. E si tratta di due elementi di studio poco approfonditi dalla critica foscoliana, che tradizionalmente ha puntato o direttamente sulla linea lirica o sul rapporto fra la lirica e la prosa ortisiana (e piú recentemente sul suo rapporto con la prosa e la posizione didimea), relegando l’esperienza tragica in una specie di intervallo meno sensibile ed autentico, in una zona di esercizio piú intenzionale legato magari alla forte suggestione alfieriana recuperata piú fruttuosamente nell’Ortis 1802, considerato, secondo le pagine del Fubini, come la vera tragedia alfieriana del Foscolo[2].

Orbene una ricostruzione storico-critica di tipo dinamico, quale mi permise già di precisare sinteticamente la posizione e il significato particolari della Ricciarda entro il periodo fiorentino di formazione delle Grazie[3], e quale considero necessaria a meglio intendere tutto l’intenso processo di sviluppo della personalità e della poesia foscoliana, conduce a riconsiderare piú dialetticamente e unitariamente l’estrinsecazione tragediografica del Foscolo come caratterizzata, in sede generale, da una necessità di espressione esplicitamente e tecnicamente drammatica di momenti e di elementi particolarmente pessimistici dell’animo e dell’esperienza foscoliana (l’Ortis è poi qualcosa di piú complesso e di piú vario sia per la ricca presenza di elementi positivi capovolti nel dramma del suicidio, ma pronti ad esplodere in altra direzione, sia per la sua intenzione di romanzo moderno, sia per la condizione spesso prelirica della sua prosa) in alcune fasi decisive dell’arco di sviluppo e della spirale della personalità foscoliana. Quando la forma tradizionale della tragedia si presentava al poeta come la piú atta a raccogliere una situazione espressiva non riconducibile alle forme della lirica o della prosa narrativa e autobiografica, bisognosa di azione esplicita e di esplicite voci di personaggi, di scontro e dinamismo scenico, e di contrasto piú aperto rispetto al semplice «chiaroscuro» lirico che pur recuperava nella sua intima complessità un elemento di contrasto drammatico e lo realizzava in una poesia che è sempre per sua natura lontanissima dalla distensione idillica, dal puro ritmo della rimembranza o dall’impeto puramente positivo e ditirambico (e ciò, sia detto fra parentesi, sin nelle Grazie, che guadagnano molto dall’essere considerate piú profondamente nella loro molla segreta di ritmo chiaroscurale che regge in realtà la presenza piú sicura della poesia di fronte ai rischi del descrittivismo o del compiacimento didascalico-illustrativo).

Si vedrebbe cosí come il Tieste sia il necessario avvio dell’Ortis, la prova piú immatura ed esasperata e monotona di una drammaticità e di una crisi che recuperando la spinta piú convulsa e caotica delle «odi del conio dell’autore» incarnava l’alfierismo del Foscolo in una posizione estremistica di autodistruzione dei personaggi e dell’azione e tentava la trasposizione nel mito antico, e nelle forme tragiche, dei propri elementi esuberanti di dramma dei valori e delle passioni (libertà e amore) che non riescono ad affermare la loro intensità se non nella sconfitta e nella morte. Crisi che si precisa, si articola, si storicizza e prepara la vita di valori positivi nel complesso lavoro dell’Ortis e della enorme esperienza che esso implica nel suo ambito fra 1798 e 1802 (prima ode, sonetti minori, Sesto tomo, Carteggio Arese, prose politiche del ’98-99 e Orazione a Napoleone Bonaparte). E dunque momento di esplosione tragica allo stato puro con tutto quello di piú abbozzato ed ingenuo e libresco che essa comporta, ma cosí essenziale nella sutura fra l’Ortis e la prima esperienza giovanile che aveva cercato espressione nelle forme liriche o romanzesche-elegiache ed ora si concentrava e cercava congeniale forma drammatica al fondo drammatico di quella crisi.

Si vedrebbe cosí anche come la Ricciarda, secondo quanto ho detto nel saggio sopra ricordato, sia il necessario momento di espressione e di scarico di una drammaticità troppo facilmente elusa nell’iniziale impostazione delle Grazie, drammaticità che solo dopo la sua piú convulsa estrinsecazione, poté essere riassorbita nelle forme piú convenienti di una base drammatic-elegiaca nella dialettica armonia-dissonanza del grande poema incompiuto. Il quale altrimenti (a stare al tono anche della esperienza vitale dell’agosto 1812) sarebbe stato forse condotto piú sul piano della «melodia pittrice» e di un’evasione dalle «cure» che non nella direzione della sua intera poetica dell’«arcana armoniosa melodia pittrice» e nel raccordo fra il sentimento dolente degli istinti laceratori degli uomini e l’aspirazione all’armonia e all’espressione di quei valori consolatori e superiori della compassione, del pudore, della gentilezza che già albeggiano nella voce pura di Ricciarda: e già prima (e, come vedremo, la base generale piú profonda delle Grazie va ritrovata, prima che nell’intervallo convulso della Ricciarda, nella esperienza tragica dell’Ajace) nella voce di Tecmessa.

E dunque, al di là delle esigenze del letterato e dello sperimentatore di forme letterarie (prima la piú ingenua volontà di provarsi nella tragedia e di combattere una battaglia a favore della nuova tragedia alfieriana nel suo valore esemplare e nelle sue implicazioni etico-politiche; poi la nuova tensione a forme di teatro romantico classico italiano e la implicita gara con Schiller[4]), le tragedie implicano non solo un valore evidente, ma da meglio studiarsi, per la formazione e lo sviluppo del verso foscoliano (si ricordino gli accenni già fatti in tal senso per il Tieste dal Carrer[5]), ma soprattutto una loro necessità d’espressione piú apertamente drammatica in momenti decisivi della spirale foscoliana e in rapporto con momenti di maggiore risoluzione lirica che in quella espressione trovava appoggio, avvio, base di risonanza e di superamento fecondo.

Mentre, d’altra parte, sul piano della considerazione della realtà estetica delle tragedie, è chiaro che il Tieste e la Ricciarda rivelano tanto piú l’immaturità e la funzionalità di queste opere piú approssimative e incerte, outrées e mancanti di centri poetici precisi al di là della loro funzione indicata di esasperata tensione drammatica (oltreché una generale insufficienza della capacità teatrale del Foscolo). Donde il carattere del Tieste quale centone alfieriano e caotico accumulo di temi di orrore (e le parole che vi campeggiano e corrispondono ad un clima frenetico truce e disperato sono notte, morte, sangue e pianto), e il fallimento della Ricciarda che, pure in una articolazione piú esperta e in una certa sua forza romantica di espansione anche nel linguaggio, si risolve in una convulsa prova di urgenza drammatica, priva di un saldo fantasma centrale, di un contrasto preciso e dinamico (poco produttivo è il motivo patriottico-politico che mal vive nell’opposta eloquenza, pur significativa[6], di Averardo e di Guelfo), frammentandosi nel «satanismo» quasi byroniano di Guelfo e nel suo estremistico rifiuto di vita positiva (fra l’odio fraterno, l’ansia di potere – Eteocle e Saul – e il sentimento dell’empietà dell’ordine delle cose e della vita[7]) e nella misura di «pietà» di Ricciarda che piú direttamente funziona come appoggio – nella scala delle sacerdotesse foscoliane – ai sentimenti grazieschi della femminilità pudica, gentile e altruistica. Ben diverso è il caso dell’Ajace in cui lo spazio interno è tanto maggiore e la funzione generale e lo sforzo peculiare dell’opera si commisurano con la diversa forza e complessità poetica.

Non solo si ha l’impressione che il Foscolo abbia meditato quest’opera con ben altra profondità rispetto al Tieste e alla Ricciarda, ma è chiaro che qui la funzione generale del momento tragico si è incarnata in forme non approssimative e di sfogo trovando un tema profondo e insieme attuale, storico e personalmente partecipato, e legato con un preciso stadio del pensiero foscoliano e con alcune sue costanti fondamentali. E il risultato è ben diversamente alto e potente, anche se la stessa tensione e la ricchezza di elementi che vi confluiscono finirono per limitare in parte la possibilità di perfetta misura artistica e di sicura articolazione teatrale.

Sicché, se è accettabile il rilievo del Donadoni – che ha offerto alcuni degli scandagli piú profondi in quest’opera foscoliana – circa la minaccia rappresentata dalle troppe correnti che tendono l’Ajace nei riguardi della sua armonica compiutezza, la piú recente definizione del Natali[8] dell’Ajace come «tragedia sbagliata», leggibile solo in pura e semplice chiave lirica per bellezza di squarci lirici a sé stanti, non è accettabile, perché un’intima forza di organicità, un impianto di grandiosa drammaticità non mancano a quest’opera, potente (anche se non realizzata in misura circolare perfetta e troppo complessa per una piú sicura rappresentabilità teatrale) e cosí importante nel complesso dell’opera foscoliana che non si può dire che conosca davvero il Foscolo chi non ne abbia inteso e valutato l’Ajace.

Precisiamo anzitutto quell’elemento di attualità della tragedia il cui grado è ben diverso da quelli del Tieste e della Ricciarda (la piú profonda attualità si svolge vicino a quelli nell’Ortis e nelle Grazie) e che fa dell’Ajace anzitutto un alto documento poetico di testimonianza, di esperienza e di sofferenza di un dato momento storico.

Come i Sepolcri erano databili 1806 (non solo l’applicazione dell’editto di Saint-Cloud, ma i riferimenti alla situazione dello stato vassallo del Regno Italico, al Nelson ecc.), cosí l’Ajace è veramente opera del 1811, anno del supremo tentativo di Napoleone di imporre il suo dominio a tutto il continente e addirittura al mondo[9], di trasformare la guerra contro la Russia (i cui preparativi erano in atto sin dall’estate di quell’anno) non solo nel tentativo di eliminare l’alleato terrestre dell’Inghilterra, ma nell’assoluta implicazione degli stati vassalli e alleati (e specie della confederazione renana) nella politica del proprio impero.

Cosí il Foscolo raffigurava la politica di Agamennone, nell’Ajace, teso nelle parole di Ulisse[10] ad assoggettare i popoli alleati:

Già bisbigliar s’intende

che il pugnar per l’adultera è pretesto;

che ad ardua guerra oltre l’Egeo raminghe

le Danae genti a te sommesse adeschi

per usarle al tuo freno, e stender quindi

lo scettro tuo sovra la Grecia.

E certo non è possibile non avvertire il riferimento ad una situazione attuale e ai preparativi per la campagna di Russia (e allo sdegno per le guerre di conquista napoleoniche, poi cosí chiaro nelle Grazie) nei versi di Calcante[11], che poi il Foscolo riportò nella Lettera apologetica attribuendo loro il carattere di profezia ispirata e motivo primo del proprio allontanamento dal Regno Italico nel 1812.

«Io nel 1812 ebbi a partirmi dal Regno, e starmi, come ho narrato pur dianzi, sotto la guardia di uno de’ Protei famosi de’ Fouché e de’ Savary, per i versi della tragedia rappresentata fra gli apparecchi della spedizione in Moscovia.

A traverso le folgori e la notte

trassero tanta gioventú che giace

per te in esule tomba, e per te solo

vive devota a morte...

e tornaron profezia di Cassandra ecc...»[12].

Non occorrerà perciò accettare le voci dei nemici del Foscolo che parlavano di una precisa chiave politica in cui leggere l’Ajace (Agamennone-Napoleone, Ulisse-Fouché, Ajace-Moreau, e magari Calcante-Pio VII, Tecmessa-Maria Luisa!), ma è evidente che il riferimento generale di Agamennone a Napoleone e della situazione del campo greco con la situazione degli Italiani vassalli di Napoleone e divisi da sette e di Ajace con un rappresentante ideale, e probabilmente autobiografico[13] (ché tutta la dialettica dell’Ajace fra realismo e generosa utopia è direttamente ricollegabile a problemi del pensiero e dell’esperienza foscoliana di quel periodo), degli Italiani migliori presi fra l’ansia di libertà e il timore della guerra interna e della licenza e di peggiori dittature, sono ben recuperabili, senza sforzo, nella tragedia che poi, come vedremo, rimanda a tutta una meditazione storica, e a suo modo esistenziale, sulla situazione degli uomini e sul loro dramma politico.

Non si tratta dunque di un dramma a chiave, ma di un dramma che ben riflette elementi del tempo[14] nella sofferta esperienza che di questo faceva il poeta ricollegandolo al suo approfondito sentimento del dramma della politica e dei rapporti fra libertà e potere, e del dramma degli uomini nati a «ingannare ed a tremar», nati ad «amarsi e trucidarsi».

Sempre piú appassionato alla sorte dell’Italia[15], il Foscolo sempre piú avvertiva in questo periodo la tragica situazione degli Italiani migliori che stavano, come dirà nella tragedia, «fra giogo e libertà perplessi» e che non potendo augurarsi la vittoria dei nemici di Napoleone[16] non potevano neppure piú desiderare dal profondo i successi imperialistici di questo che avrebbero ulteriormente ribadite le catene degli stati vassalli, né potevano sperare nelle «sette» e in rivolgimenti che potevano condurre a nuova licenza (il terrore o l’anarchia della Cisalpina) e a nuove peggiori dittature assolute.

Donde il senso angoscioso della «burrascosa libertà» agognata e temuta, che si esprime nelle fondamentali parole di Calcante ad Ajace, parole in cui (entro la particolare sfaccettatura della prospettiva del sacerdote[17]) si esprime insieme il dubbio della legittimità dell’azione liberatrice nei confronti di chi trova «sua pace» nell’obbedire:

Ma e quando amino il giogo

qual Dio, qual legge ti dà il dritto a sciorre

chi in obbedir trova sua pace? Or mentre

è dubbio il danno, un regnator che tante

schiere corregge da gran tempo, e a cui

la maestà del sommo imperio i cieli

diero e la forza, affronterai? Se cadi,

piú poderoso infierirà. Ma intriso

di cittadina strage, ove tu vinca,

vincer dei poscia la licenza e il volgo. –

Ahi burrascosa libertà, deh come

spesso l’anime eccelse a disperato

furor strascini!

Nel Foscolo era venuto crescendo un realismo sempre piú disilluso, tra fatalistico e insieme amaramente orgoglioso della propria consapevolezza, espresso fortemente già nella fondamentale orazione pavese del 1809 Sull’origine e sui limiti della giustizia, che, al di là dell’impeto positivo piú sepolcriano dell’orazione inaugurale, intendeva rappresentare una diagnosi ferma e lucida della natura degli uomini e della loro società (la giustizia è basata sulla forza e non esiste «l’equità naturale»; «tutto quello che è deve essere; e se non dovesse essere, non sarebbe»[18]).

E questo realismo sosteneva, negli anni fra i Sepolcri e le Grazie, una nuova e piú intensa ripresa del pessimismo foscoliano i cui fondamenti realistici sono piú volte, e in varie direzioni, ribaditi nelle importantissime lettere al Giovio[19] e che si avvalora anche nel nuovo studio del pensiero machiavellico e, biograficamente, nella nuova verifica della piccolezza e bassezza degli uomini e dei letterati con cui il Foscolo si scontrò (miseri e poveri Ulissi in diciottesimo) nella «eunucomachia» di questi tristi anni milanesi. Verifica che, d’altra parte, riconduce allo sviluppo crescente della sua concezione morale e antiletteraria della letteratura, dall’Orazione inaugurale e dalle lezioni sulla morale letteraria in poi (con dietro le fulminanti invettive della Chioma contro i grammatici «anime di cimici»).

Aspetti vari, ma concorrenti in un momento essenziale della spirale foscoliana in cui realismo e pessimismo si incontrano, cosí approfonditi, con un intenso bisogno di magnanimità, di essenzialità e di armonia già affiorante soprattutto nella voce di Calcante e Tecmessa, nell’esercizio interiore e non solo stilistico delle versioni omeriche, e che cercava via di piú sicura espressione verso la direzione da cui nasceranno fra poco le Grazie.

Ma, ripeto, sentimento e aspirazione di armonia, di valori fondatori di una realtà superiore non avrebbero avuto la loro profonda ragion d’essere se – ed è qui soprattutto la piú profonda presenza dell’Ajace – il rinnovato momento realistico-pessimistico non fosse intervenuto a sostenere appunto il bisogno di un nuovo superamento, di una nuova elaborazione di valori piú intima e ancor piú sofferta di quella dei Sepolcri. E nell’Ajace, sulla salda base di un dramma politico, cosí attuale e cosí eterno, l’accento pessimistico batteva di nuovo fortemente implicando proprio (nel chiaroscuro con gli aspetti superiori della pietà e della umanità portati soprattutto da Tecmessa) un forte approfondimento dell’elemento istintivo ferino degli uomini che tanta convalida trovava nella situazione delle ultime guerre napoleoniche e che è cosí fondamentale nell’impianto delle Grazie.

L’elemento realistico-pessimistico si congiunge nell’Ajace con il sentimento doloroso della naturale infelicità degli uomini che circola in tutta la tragedia e, a vari livelli, si esprime un po’ in tutti i personaggi sino alla sigla finale di infelicità che accomuna la caratterizzazione di Agamennone e della sua solitudine di tiranno (la solitudine del potere assoluto) e quella di tutta la tragedia nel suo nodo politico-esistenziale:

Piú forte

e piú esecrato, e piú infelice io sono.

Mentre l’affermazione dello stesso Agamennone sul destino degli uomini nati «a ingannare ed a tremar»[20] prelude alla piú intensa e disperata diagnosi di Ajace («o uomini nati ad amarvi e trucidarvi») nella suprema e sublime parlata di questo quando egli decide il suicidio e conclude con un esasperato rifiuto della vita il cui orrore è ribadito con una tensione piú compatta e matura delle consimili espressioni ortisiane:

Ajace, fuggi

ove piú non vedrai né traditori

né tiranni né vili; ove imitarli

piú non dovrai né calunniar chi forse

or per te more. – O uomini infelici

nati ad amarvi e trucidarvi, addio!

O Salamina patria mia, paterne

are, da me non profanate mai,

campi difesi dal mio sangue, addio! –

Ch’io veggia e adori quella sacra luce

del sol prima ch’io mora. Oh come s’alza

splendida, e il mio occhio avvilito insulta!

Ah se rivive la mia fama, allora

o glorioso, eterno lume, o sole!

sovra il sepolcro mio versa i tuoi raggi.

Or ti guardo dall’Erebo e ti fuggo,

e nell’ignota oscurità mi immergo

inorridito!...[21].

È qui che la tragedia tocca il centro piú intenso del tragico pessimismo di un’esperienza vitale sofferta e testimoniata dal personaggio centrale che pure insieme, al di là del mondo piú politico di Agamennone e di Ulisse (al centro fra questo e il gruppo di Calcante e Tecmessa), sa pure intravedere la tragedia degli uomini divisi fra la vocazione di amore e l’istinto atavico belluino che sarà il termine piú profondo della dinamica delle Grazie.

Sicché, nell’attuato abbandono e rifiuto di «questa» vita di sproporzione e di squilibrio, Ajace può pure elevare il suo supremo sospiro ad una realtà diversa che dolorosamente albeggia, pur dentro le piú chiare pieghe di fatalismo e di rifiuto, nel suo demandare a un cielo, per quanto incerto e generico, la vendetta delle scelleratezze.

Certo nelle sue ultime parole c’è un rifiuto di lotta che implica (né qui il discorso si può interamente svolgere) un indebolirsi delle prospettive eroiche attive del Foscolo (accanto all’indebolirsi della fede democratica piú giovanile[22]), ma insieme c’è un ricorso a valori ideali che, pur già nel limite della dialettica foscoliana, sono termine di tensione viva e apertura verso la zona purificatrice delle Grazie:

Ah! il civil sangue... basti,

o Teucro... teco ogni sostegno a questa

donna rapisci e a’ tuoi... Vano è il tuo brando

se sta ne’ fati che d’Atreo la stirpe

regni... – Io manco... Addio, Teucro... su questa

tremante destra... e questo estremo priego

reca al duca de’ Locri – o Teucro giura

che lascierai le mie vendette... al cielo.

Non un perdono cristiano, ché, quando Agamennone appare sulla scena, il morente invoca Calcante che lo veli e liberi il suo sguardo dalla vista dell’oppressore

(Deh! vieni, coprimi col tuo

velo, Calcante, coprimi... che l’occhio

dell’oppressor... non contamini almeno

il morir mio. – Sotterra t’aspetto,

o re de’ re),

ma certo uno spiraglio ad una confusa dimensione superiore in cui piú coerentemente, e pur non senza sofferenza, vivono già Calcante e Tecmessa.

Non si può dire che il ricco fascio di forze problematiche che tendono dal profondo questa tragedia si chiarisca totalmente in un messaggio preciso e in una rappresentazione totalmente chiara e articolata; e cosí la ricchezza e complessità dei motivi di cui son caricati i personaggi e la stessa complicatezza dell’azione fanno sí che la tragedia riesca a suo modo difficile, difficilmente rappresentabile, e anche sul piano della lettura (che non può non essere d’altra parte lettura drammatica[23]) bisognosa di un’attenzione replicata ed estremamente provveduta de’ termini impliciti di tutto il pensiero foscoliano e degli echi ed anticipi che l’opera comporta nei confronti della restante attività foscoliana.

Ma anche ad una prima impressione spregiudicata l’Ajace rivela la sua grande potenza, la sua suggestione appunto di dramma problematico, e la sua grande ricchezza di poesia.

Colpisce anzitutto la forza epico-tragica che in certe parlate (la tragedia è priva di didascalie e di soccorsi corali e scenografici, tutta affidata alla parola scritta) il Foscolo ha saputo realizzare potentemente traducendo narrazione in rappresentazione e dando alla complessa forza di questa tragedia il risalto indiscutibile di una suggestione persino di movimento e di azione di masse, uno sfondo di vita e di azione bellicosa e guerresca di grande efficacia.

Non solo la grandiosa scena delle truppe troiane condotte da Agamennone alla morte (nel brano già parzialmente citato per il riferimento alla campagna di Russia[24]), ma certi possenti movimenti corali come quello iniziale della folla dei Greci invasi dal desiderio del ritorno e dalla desolazione della morte di Achille[25].

Inerme il volgo

lungo il lito del mar trascorre a torme

chiamando a nome i padri, i figli, e l’ombre

de’ perduti compagni. Al grido, ai cenni,

al consigliar de’ prenci un disperato

gemer risponde, e per sé geme ognuno,

per te, per noi, or che il Pelide è spento.

O l’impressionante passaggio dall’immobilità e dal silenzio al movimento e all’urlo della massa dei Mirmidoni intorno alla pira di Achille[26].

I soli

Mirmidoni anelavano alla pugna

per immolar trojane vite all’ombra

del lor signore: e prosternati intorno

alla fumante mal estinta pira

tutti giacean ferocemente muti.

Or quando udiro del ritorno, un grido

dier terribile, e mille aste brandendo

tutti ad un tempo sursero da terra;

e prorompean nel vallo che circonda

de’ prigioni le tende.

E, a volte, anche in rapidi particolari dell’azione, la parola foscoliana ha ottenuto la nuova capacità (sviluppando certi elementi attivi e rappresentativi specie dei Sepolcri: l’episodio di Ajace o la prosopopea dell’Alfieri) di suggerire rappresentazione di azione e di rendere potentemente un’atmosfera di movimento guerresco.

Si pensi a certi brevi comandi di Agamennone quando prepara lo schieramento delle sue truppe contro quelle di Ajace[27]:

Tu va. Silenzio tra le file regni.

Tutti i fuochi si estinguano.

Sul piano

per diverso sentier dietro a quel colle

sien congregati con le schiere i duci;

o al commento inorridito di Calcante che avverte il carattere insolito e pauroso di quei movimenti silenziosi di truppe nella notte[28]:

O re de’ re, corri a battaglia e i numi

del popol tuo teco non hai? né l’aure

suonan di canti a presagir trionfi?

E a qual vittoria tendi? orrendamente

dal silenzio e da tenebre ravvolti

accelerar s’odon gli armati...

O si ricordi nelle parole di Tecmessa[29], interrotte dalla sensazione dell’improvviso silenzio della battaglia fratricida fra i Greci, l’effetto formidabile del risuonare lugubre e monotono del mare in tempesta, prima coperto dal rumore del combattimento:

... Spaventoso silenzio!... E non fremea

di minacce, di carri e di omicidj

la terra intorno?... Appena odo da lunge

il burrascoso muggito del mare –

O! vi siete tra voi svenati tutti? –

Con un’eco evidente della battuta di Giocasta nel Polinice alfieriano, ripresa però con un’arte piú matura e una forza di effetto piú profonda e meno enfatica anche se meno naturalmente teatrale[30].

E se la grande pagina dell’improvvisa evocazione della lotta di Ajace solo contro tutti i Troiani parve al Foscolo stesso uno squarcio troppo lirico ed egli pensò di toglierlo dalla tragedia e di fatto se ne serví per il passo del viceré in lotta sull’Elba, nelle Grazie[31], essa in realtà è ben lungi dallo stonare, se non forse nella precisa voce di Ulisse[32] (che sembra comunque cedere egli stesso, cosí machiavellico e controllato, alla potenza di quella immagine fulgida), certo nella compagine epico-tragica dell’Ajace specie se assicurata, com’è, dal bellissimo inizio corale, quando i Greci[33], dopo le parole riferite di Ajace, volgono istintivamente gli occhi al Sigeo dove l’eroe aveva respinto da solo Ettore e i suoi.

Successe

alto un silenzio, e alla risposta io mossi.

Ma tutti gli occhi alla sigea marina

si conversero. All’oste ancor parea,

quando il gel della rotta entro le navi

addensava gli Achei, veder sul vallo

fra un turbine di dardi Ajace solo

fumar di sangue; e ove diruto il muro

dava piú varco a’ Teucri, ivi attraverso

piantarsi; e al suon de’ brandi onde intronato

avea l’elmo e lo scudo, i vincitori

impaurir col grido; e rincalzarli

fra le dardanie faci arso e splendente,

scagliar rotta la spada e trarsi l’elmo

e fulminar immobile col guardo

Ettore, che perplesso ivi rattenne

dell’incendio la furia onde le navi

a noi rapiva ed il ritorno.

Né potrà dimenticarsi quella specie di breve tragedia nella tragedia che è la morte di Ifigenia nella rievocazione che ne fa Calcante ad Agamennone[34].

Misero re! Pur mi vedesti assiso

sull’altar della Dea, l’intera notte,

disdir l’orrendo sagrificio: e quanto

te scongiurando e abbracciando non piansi!

Piangevi tu, ma non udivi. A’ tuoi,

a’ fidi tuoi, prezzo del sommo impero

vittima davi Ifigenia. Per essi

del terror delle Erinni ardean le schiere

e a nudi brandi intorno mi fremeano

pallide, atroci, e deliravan sangue,

che le infernali Deità placasse.

Dell’innocente giovinetta il crine

coronò il fratel tuo; gittò sovr’essa

il vel. Con fredde mani ella le mie

strinse, al cielo mirando. Io te mirava

e ancor credea che tu padre saresti!

Raccapricciando ritraevi il volto,

e il tuo scettro tremante la bipenne

accennavami... eterno in cor mi geme

della morente vergine il sospiro!

Ma non si tratta di puri squarci lirici che raccomandino ancor una volta la soluzione di una lettura di brani e quasi di liriche a sé, dato che, come ho detto, la tragedia ha un suo profondo nucleo di problemi drammaticamente prospettati, e una tensione drammatica crescente la anima salendo dai primi atti, in cui predominano le figure di Agamennone e di Ulisse e i temi piú politici, agli ultimi, in cui predominano la disperata delusione di Ajace e le voci dolenti e pure di Calcante e Tecmessa e con loro l’incontro fra l’estremo del rifiuto della vita e un’apertura se non di speranza, di aspirazione a dimensioni piú alte.

Né i personaggi, per quanto troppo ricchi e complessi di fronte a quel tanto di stilizzazione teatrale che li renderebbe piú facilmente efficaci scenicamente, sono solo luoghi di raccolta di sentenze e pretesti di narrazione-azione. Un occhio teatralmente piú sicuro li avrebbe meglio squadrati e caratterizzati: e pur cosí come sono, sono vivi e pieni di una sostanza poetica, anche se il loro valore è soprattutto rivelato nella generale partecipazione alla tensione dolorosa del dramma generale che li investe, al fondo del problema drammatico che in tutti loro e nella loro dialettica si esprime[35]. Si ripercorra da questo doppio punto di vista la scala dei personaggi, lasciando da parte Teucro che è figura piú laterale e troppo risolta nella funzione assegnatagli nella macchinazione di Ulisse, il quale al principio della tragedia lo allontana dal luogo dell’azione, lo induce a tentare una manovra di accerchiamento del campo troiano per farlo apparire poi transfuga e traditore e riflettere la luce del tradimento sul suo fratello Ajace.

La figura di Ulisse è al gradino piú basso della scala tematica della tragedia e, come dicevo già, è piú rilevata nella prima parte dell’opera in relazione all’impianto del nodo drammatico e alla piú forte espressione di quegli elementi di un machiavellismo scellerato nella cui prospettiva umana-disumana Ulisse rivede le leggi della politica, del «cosí è», degli istinti della stirpe «nata a ingannare ed a tremar».

E se infatti già nell’atto IV (scena VIII), prima di scomparire dalla scena che piú non sopporta la sua presenza, egli rivela la componente dolorosa della sua figura, il suo cruccio per il disprezzo che sente ricader su di sé e che lo rende «infame», e a cui non basta totalmente la soddisfazione di esser coerente al principio fondamentale dell’utile (far «proprie» «le forze altrui»), là dove la sua presenza è valida nell’economia dell’azione (di cui egli è il vero motore come lo Jago shakespeariano risentito dal Foscolo in direzione politica) Ulisse riesce a far vivere continuamente i termini della dolorosa meditazione foscoliana, gli aspetti di una triste filosofia politica realistica degradata nelle forme di un utilitarismo che si incarna in una azione tenace il cui ultimo scopo è la conquista della gloria (le armi di Ajace) come compenso alla sua infamia e l’eliminazione di ogni rivale al potere assoluto (come rivelano le parole di Calcante che prefigurano[36] l’ultimo scontro di Ulisse con Agamennone: «Te solo un dí, te d’ogni eroe deserto / affronterà l’assalitor tuo vero»). Ma questo stesso scopo è dominato dal perfido gusto di una tecnica politica che gode della sua abilità. E le cui massime circolano, attive e compiaciute, entro le pieghe dell’azione di Ulisse complicata dalla utilizzazione scellerata di sentimenti nobili ed umani[37]. Cosí la religione è sentita come strumento di regno e di sovversione[38], il nome di patria è considerato pretesto «a popolar licenza / e a tirannide occulta»[39], l’«arte» in politica deve prevalere sulla forza[40]; e cosí ogni sua affermazione e parola sono ispirate da questa filosofia di realismo estremo che è come la base necessaria e inferiore della problematica della tragedia in cui Ulisse porta i colori piú cupi e ripugnanti. Mentre la figura di Agamennone si stacca in una zona già piú alta e la sua tensione al successo non esclude la finale coscienza della sua infelicità e della sua solitudine, crescente insieme al crescere del suo potere assoluto. Cosí come non esclude la forte vibrazione del tormento causato dal sacrificio di Ifigenia che funziona come rimorso e piaga inesorabile al suo orgoglio di re (e si ricordi lo scatto poetico con cui egli replica al ricordo che di quel delitto gli viene rinfacciato da Ajace[41]: «Che ogn’uom mi versi quel sangue sul volto!»), ma insieme (come bene intuisce Calcante[42]) quale incentivo al suo bisogno di far pagare ai principi greci il peso tremendo della sua colpa. Come in un’analisi acutissima della personalità del dittatore, la lacerazione dei rimorsi si commuta in aumentato bisogno di potere assoluto, di rivincita e di sfogo, di propagazione della propria contaminazione. E si veda in proposito, nella scena I dell’atto II[43], la sua parlata in cui, sull’avvio della parola «vittima» evocata da Calcante, egli svolge la propria situazione di dominare alla luce della sua condizione di parricida:

Al dolor mio vittime voglio.

Questo infamato scettro, ecco, vel rendo:

tremar vi fea; calcatelo. Ch’io possa

me stesso almen non abborrir! – Io tutti

punirò meco. Le viscere arcane

mi sbranano l’Eumenidi. Ma voi

astuti, sconoscenti, invidi prenci,

che a scerre un dí tra la mia figlia e il trono

pur mi traeste, siate avvinti al giogo

del parricida Agamennone.

Situazione ribadita e chiarita nel raccordo fra il peso del delitto e la volontà di potenza nella parlata finale della stessa scena[44]:

Oggi o non mai fia manifesto al mondo

che fin ch’io spiro e ch’io vedrò la terra,

me i Greci sempre obbediranno; e tutti.

Anche il mortale che né amar né odiarlo

vorrei, che forse me non odia... Ajace...

primo cadrà se a me non serve. – Gli altri?

O vili o insani o perfidi son tutti.

Traditor mille io veggio. O umana stirpe

nata a ingannare ed a tremar! Ma infame

fia il traditor che mi farà piú forte.

Indi a mio grado io spezzerò que’ vili

stromenti, allor che rammentarmi il nome

non s’ardirà d’Ifigenia. Me solo

giudice avrò, carnefice me solo.

Ma voi, chinate gli occhi vostri: io sdegno

lagrime, e lodi: il terror vostro io voglio.

Dunque un tiranno che soffre i riflessi della situazione umana e del suo dramma personale e che, pur carico di egotismo, di esasperati sentimenti di orgoglio[45], è venato continuamente da elementi di magnanimità che lo portano a disprezzare Ulisse, ad avvertire la grandezza di Ajace[46], e che lo situano ben al di sopra di Ulisse entro una meditazione sul tiranno che ha superato lo schematismo del giovanile Tieste: e implica nel Foscolo una acutezza e ricchezza di esperienza psicologica che ben si accorda alla sua intuizione matura in cui fatalismo e realismo non spengono l’aspirazione a valori alti, ma la stimolano anzi sulla base di un pessimismo piú complesso di quello ortisiano, nel senso piú problematico della radice del bene entro la ganga di un’esperienza vasta e sofferta dalla natura umana.

E cosí la stessa delineazione della zona superiore in cui si muovono i personaggi piú alti e puri della tragedia non è priva di note che la distinguono dalle forme di contrasto a netti contorni, mediata com’è, nella figura centrale di Ajace, dal peso degli istinti ferini, dal peso dell’individualismo che anche nell’eroe suicida si fanno chiaramente sentire.

Ajace è certo il personaggio che riporta in sé piú chiare tracce del personaggio di Ortis e della figura romantica del Foscolo nonché alcune componenti di piú chiara eloquenza ed enfasi, con un che di irrequieto e di concitato specie nella prima parte della tragedia, in cui la contrapposizione fra l’eroe libero, l’uomo vivo per la patria e per la gloria, il tiranno e il consigliere perfido, è piú recisa e schematica (la tragedia va crescendo di profondità e di poesia nel suo svolgersi).

E il suo linguaggio è, specie agli inizi, piú chiaramente enfatico («in me la patria e la sua forza vive», «odami dunque / qui favellar da re», «onta resti a chi teme illustre tomba»[47]). Ma la figura e il linguaggio vengono a mano a mano (e specie nell’incontro con Calcante e poi con Tecmessa) caricandosi di piú intima energia, e come la sua espansione inizialmente un po’ tenorile trova una misura piú interna nella furia incalzante del fato che Ajace sente (piú di ogni altro personaggio) urgere in sé[48], con un che di precipitoso che brucia la stessa enfasi e la rende piú intensa e nuova, cosí la sua stessa forza agonistica e disperatamente solitaria («Eccomi solo: / ho il mio coraggio e la mia gloria meco»[49]) si arricchisce progressivamente di motivi alti che circolano per tutta la tragedia: l’avversione per la dittatura che rende greggia gli uomini[50], la fedeltà ad una legalità regale dove essa non sia infranta dagli stessi re[51]. Motivi che riconducono alla meditazione foscoliana sul potere legale ormai lontana dal piú giovanile impeto rivoluzionario. E se il personaggio è sempre contraddistinto da una piú rapida sentenziosità, da una concisione definitoria di persone e di situazioni piú enfatica e diversa dal parlare piú complesso degli altri personaggi[52], la sua tensione espressiva cresce insieme alla disperazione delle azioni fratricide cui lo conduce ineluttabile e orrenda la necessità della lotta per la libertà:

Ma io?... vedi... le furie mi strascinano

a bagnarlo di sangue, di quel sangue

che tu abborrivi e ch’io finor difesi[53].

E, nella tensione suprema dell’azione imminente che lo porterà a combattere con i Greci di Agamennone e nel tormento di un possibile tradimento di Teucro, la sua capacità di linguaggio drammatico tocca limiti ignoti al Foscolo precedente con una potenza immaginosa («il tuo urlo spaventa / la notte») che va ben al di là dei risultati alfieriani e di tutta la nostra tradizione:

L’oscurità dell’Erebo è diffusa

anche su gli astri: io tra l’insidie e l’ombre

chi sa in che petto immergerò il mio ferro!

Teucro, ove sei? – Teucro! mi fai codardo. –

T’odo, Bellona! Il tuo urlo spaventa

la notte...[54].

Per esaltarsi piú distesamente, quando la battaglia è interrotta dal suo disgusto della strage fraterna e dal peso del possibile tradimento di Teucro, nel sublime monologo citato, in cui Ajace decide il suicidio e raccoglie nelle sue parole il sentimento piú disperato della tragedia: la vita è impossibile per l’eroe libero, alla libertà non si possono dare «ostie di sangue», e solo la morte volontaria ci sottrae al dilemma spaventoso della servitú o della strage fraterna, alla tragica sorte degli uomini nati ad amarsi e a trucidarsi portandoci in una triste assenza dove non si vedono piú né tiranni né vili né traditori e soprattutto non si è costretti, dalla legge del «cosí è», ad imitarli.

A questo punto della tematica della tragedia giunge il contributo piú vivo di Ajace (contributo di vita drammatica, di posizioni, di linguaggio rinnovatore), anche se l’altra battuta già citata e rivolta a Teucro ricongiunge Ajace alla triste saggezza della tragedia e alla sua complessa radice di atteggiamenti superiori: rifiuto del sangue civile e del proseguimento degli odi e delle vendette, deferimento delle vendette al cielo. Dove nell’apparente inerzia e rinunzia pur albeggia confusamente un punto di vista superiore e liberato dalla scellerata dialettica degli istinti ferini. Soluzione chiara? No. Piú chiara sarà la soluzione delle Grazie, anche se in essa stessa nessuno può negare che il Foscolo sol con difficoltà abbia attinto la soglia di ordini piú alti e non senza il pericolo di una certa astrattezza «metafisica».

Ma, nell’articolazione della tragedia in personaggi, ben forte è il peso dell’aspirazione foscoliana a un sentimento superiore della vita che anticipa i centri piú nuovi delle Grazie e che ha il suo corrispettivo piú puro e perfetto in Tecmessa, in cui vive il recupero altissimo di una purezza eccezionale, lo sviluppo di quelle doti sacerdotali della femminilità portatrice dei valori umani della compassione e del pudore[55] (i piú antitetici agli istinti atavici ferini dell’uomo) che si esaltano, per mezzo di essa, nell’ultima parte della tragedia: dove l’incontro fra la sua posizione, quella di Calcante e il suicidio di Ajace, costituisce, legato com’è alla dinamica della politica di Ulisse e Agamennone, il momento rivelativo del dramma della situazione degli uomini. Uomini cosí alti e cosí miseri, cosí dotati di tensione a valori superiori e cosí impotenti a farli vivere se non nel rifiuto eroico della vita o nell’aspirazione a una realtà liberata che sol nelle Grazie troverà le sue condizioni piú propizie di esercizio pur sempre sotto la minaccia dolorosa, sollecitante e necessaria, dei disvalori istintivi ed atavici.

Tecmessa è certo la figura piú interamente realizzata in grande poesia e della grande nuova poesia foscoliana porta, insieme a Calcante, le cagioni interne e il linguaggio che altrove poteva intricarsi in forme, qua e là, piú alfieriane e risolversi, a volte, in certa piú assiepata sentenziosità e difficoltà di narrazione-azione, e che nella sua voce e nella espressione della sua situazione cosí complessa e cosí nitida (come poi nella tensione sacra di Calcante) trova le sue punte piú nuove di dolorosa serenità, di sofferenza fatta superiore armonia e intimamente regolata da una misura, da una dignità pudica e pia che si riflette nella impostazione severa e dolce della figura, originalissima nella nostra poesia.

Lontana dallo spirito bellicoso degli uomini di cui essa risente solo gli effetti dolorosi e difesa dalla religione della casa e della tradizione familiare, istintivamente reattiva all’immagine fosca dei guerrieri e del tiranno (con il quale non riesce mai a veramente dialogare), essa è ricca e varia in tutti i suoi atteggiamenti, la sua voce è dotata di una limpidezza raccolta e di una intimità pensosa che liricizzano tutte le sue parole. Da quelle con cui, nella III scena del IV atto, si presenta nella tragedia e consolida la sua posizione di sacerdotessa della famiglia e della pietà

(Soletta con le ancelle mie,

fra le spade e le tenebre m’accinsi

a rivederlo. Al limitar l’araldo

tuo ne rattenne: altro non so. Paterno

rito e l’amor de’ nostri lari tiene

divise noi dal viril sesso; e noto

soltanto è a me delle battaglie il lutto:

vedo appena i guerrieri; e il tuo sembiante

talor da lunge io riguardai tremando)

a quelle con cui ammonisce lo stesso amato marito, insensibile al dolore che provoca in lei, e insieme invoca una morte che scarichi su di lei le colpe che la circondano[56].

Oh Ajace!... –

Tu pur che gemi all’altrui pianto, i miei

occhi in amare lagrime nuotanti

non vedi? e dispietato ah! con me sola

con me che forse t’amo unica al mondo

sarai? – Potessi almen perir io sola!

Nelle sue grandi parlate dell’ultimo atto, pausate da lunghi silenzi, pieni di un meditato raccoglimento che imprime ad ogni sua parola un accento di intensità mai sciupata dall’enfasi e dalla loquacità (e il Foscolo escogitò per lei l’uso di pause forti indicato dalla didascalia silenzio), Tecmessa esprime il senso alto del suo compianto per le vittime innocenti (i parenti troiani uccisi nell’incendio del loro carcere per eccitare Ajace alla lotta fratricida) e l’orrore per la propria condizione che la porta ad abbracciare la terra invocando la morte in modi ben lontani dall’impeto suicida del marito. Con il quale essa, pur condannando la sua azione sanguinosa, non può d’altra parte non solidarizzare avvertendo il dovere di vivere finché vive il figlio, in un intreccio di affetti che segna tutto un vasto cerchio di direzioni entro cui vive la religione foscoliana della pietà femminile:

vidi crollar fumando

il carcere de’ miei; io con questi occhi

dagli armati carnefici in quel rogo

vidi scagliar vivo co’ figli il padre...

Ohimè! spirano ardendo..., ed esecrando

la lor sorella. O padre mio, mio padre

non maledirmi tu.

(Silenzio)

Ma, e voi... non siete

misere dunque al par di me? me sola

piangete forse?... E che? pianger potete! –

Meco tornate su quell’erta: udremo

delle vittime i gemiti: il mio padre

mi chiama... io manco... – o terra, ecco io t’abbraccio;

coprimi.

(Silenzio)

Ajace, vien; mira la tua

moglie prostesa ove tu dianzi il forte

provocavi, o superbo, ed obbliasti

ch’io periva... Ma posso io non amarti?

Morir poss’io finché il tuo figlio vive? –

E sí curvo alla valle, e che piú guarda

l’atterrito profeta?... Odi, Calcante:

volgiti, deh!... al mio ultimo priego

rispondi. Vedi tu forse nei campi

illuminati dall’iniquo rogo

cader Ajace?... Ah! gridagli che seco

corre a perir la moglie sua[57].

E malgrado l’annuncio di Calcante che parlava di una vittoria di Ajace nella lotta con Agamennone, l’accumulo degli affetti evocati e l’orrore della guerra civile, in cui sa impegnato il marito, provoca in Tecmessa, in questa parte altissima della tragedia, un delirio che (sullo sfondo adiuvante dell’alba che sorge) è certo fra le cose grandi della poesia foscoliana, con la sua fermezza e dolcezza, con l’armonia che vibra delle pure cadenze elegiache che essa riassorbe in una dimensione lirico-drammatica perfetta[58]:

Ahi numi

da che infelice io fui, piú non m’udirò!

Patria e pace mi han tolto, e padre... tutto

m’han tolto: sposo mi torranno e figlio. –

Torni il sorriso al mio pallido volto,

il ciel non ama i miseri. Versate

fior sul mio grembo; a me i profumi e l’arpa

come quando l’allegro inno suonava

nella mia reggia. Allor m’udiva il cielo;

allor ch’io non gemeva!

Calcante

O desolata

giovine! oppressa dal cordoglio immenso

delira.

Tecmessa

E oh quante vergini guidavano

meco le danze; e zefiro sciogliea

le lor treccie odorate; ed i miei passi

e il mio sembiante illuminava il sole,

quando in Lirnesso i candidi corsieri

e l’aureo cocchio risplendeano e l’armi

de’ frigj re!... Su via: date all’argiva

Elena il regio peplo, a lei le rose

e l’amoroso canto, a lei che il mare

empiea di navi a desolarmi. Intanto

fra i morti, il sangue, i gemiti e la notte

andrò errando se mai l’ossa dei miei

trovassi; e tutta consecrar sovr’esse

la mia chioma recisa; e sotterrarle

nelle rovine dell’avita reggia.

Dove si vede come il Foscolo, con il soccorso dell’esercizio di traduzione-creazione delle versioni omeriche (cosí evidente qui e nelle parlate di Calcante e in certe scene di narrazione epica già ricordate), fosse giunto già nell’Ajace (e con una forza drammatica che raccorda tutto ciò ad un nucleo centrale possente e denso) ad una forma di linguaggio e di verso nuova, corrispettivo della novità di questa grande opera e della sua posizione di passaggio verso i centri piú autentici della grande poesia delle Grazie.

E nell’ultimo incontro con Ajace, prima del suo suicidio, la tensione interna di questo grande personaggio poetico, portatore dei motivi foscoliani piú profondi e piú nuovi, giunge, in un’altra parlata elegiaca-drammatica di gran valore, alla scoperta suprema della tragedia, nella preghiera al marito di far crescere non «disumano» il figlio[59].

Quando Ajace le annuncia enigmaticamente la sua decisione («Io? / Vado ove andar deggio: / tu starai forse senza me gran tempo»), Tecmessa replica le ultime parole: «Gran tempo!...», e, dopo la pausa del silenzio, gli rivolge le supreme parole:

Ajace... tu d’una regina

felice un dí, misera poscia, spesso

tu mi parlavi lagrimando, e il tuo

cuore accusando, che canuta e assisa

su le tombe de’ suoi, l’abbandonasti

sordo a’ suoi lunghi prieghi. Era tua madre

quella regina; e ancor vive e t’aspetta,

e sventurato t’amerà, e con noi

lagrimerà di men amaro pianto.

A crescer meco disumano il nostro

figlio da te, deh, non impari. Torna

meco al tuo regno. Ahi! Se tu mai non torni,

me d’ogni tua sciagura incolperanno

i genitori tuoi; della straniera

figlio fia detto il figlio tuo... – Qui teco

ch’io resti almen: né ricordar m’udrai

ch’io per te piú non ho padre e fratelli;

te piangerò, te seguirò sotterra.

Al centro della sua preghiera ad Ajace, che essa cerca di commuovere con l’immagine della madre vecchia e dolente e della propria sorte di principessa straniera, e pur nella assicurazione di fedeltà nella morte che sigla le sue parole, si eleva il motivo fondamentale della sua preghiera: che il figlio non impari dal padre, implicato nell’odio e nel suicidio sdegnoso, a crescer «disumano». Dove ben s’intende l’altezza sentimentale e culturale e storica cui il Foscolo era giunto, la sua preoccupazione per una nuova società umana liberata dalla sua eredità di odio, di rissa fraterna, educata alla gentilezza, alla pietà, all’amore. Ed a un simile futuro, ad una simile possibilità umana aspirava l’autore delle Grazie in cui cosí le tendenze evasive, il compiacimento delle belle immagini, la contemplazione dei miti metafisici della bellezza venivano centralmente vinte (come avviene nel centro vivo del poema incompiuto e nelle sue parti piú veramente realizzate poeticamente) e inverate nelle loro tensioni piú convergenti con quella fondamentale, troppo spesso ignorata o nelle svalutazioni romantiche o nelle valutazioni instaurate troppo all’insegna della poesia pura, deprimenti il vivo nesso che lega una poesia cosí nuova e suprema ad una poetica che affonda le sue radici in un’esperienza complessa, storica ed umana che dà alla poesia un valore supremo non come evasione, ma come voce di esigenze profondamente spirituali e culturali.

Allo stesso modo e in un impegno piú arduo interamente realizzato vale nell’Ajace la figura di Calcante, in cui Foscolo mirò ad esprimere la voce di un mondo superiore, pio, angosciato e sereno, in una contemplazione consapevole della sorte degli uomini e aspirante all’armonia. Voce complessa della esperienza e della sofferenza profonda di una situazione che ha una sua precisa configurazione e un riferimento attuale (la situazione del campo greco diviso dalle lotte intestine e dalla contrapposizione fra l’aspirante al potere assoluto, l’eroe libero, ma poco consapevole dei pericoli della sua azione, e lo scellerato machiavellico che aspira anch’esso piú sottilmente al potere; e la situazione dell’Europa napoleonica e, piú, degli Italiani «fra giogo e libertà perplessi»), ma che implica la situazione generale degli uomini nella loro natura, rivista nella dimensione politica e nel problema libertà – potere assoluto. E insieme voce di un’aspirazione (che non ha ancora i mezzi per realizzarla) ad un’umanità migliore: tesa a questa realtà superiore, ma consapevole della sua difficoltà e dotata di un doloroso dono profetico che anticipa le soluzioni tragiche della situazione sin prevedendo e lo scontro ultimo fra Ulisse e Agamennone e la trama delittuosa di Clitennestra[60].

Estremamente sintomatico per il riferimento attuale e foscoliano è l’orrore di Calcante per le divisioni delle «sette» e profondamente storico è il suo sentimento della difficoltà della libertà già ricordato[61]. Calcante ben riconosce la superiorità di Ajace che considera come figlio, ma ne vede anche l’impetuosità avventata e la scarsa capacità di considerare i pericoli della sua azione. E se nell’ultima parte della tragedia egli consona interamente con Tecmessa ed Ajace, la sua voce, in cui dolore e armonia si fondono in una temperie di verso molto significativa, ha spesso qualcosa quasi di troppo trepido e lacrimoso e corrisponde ad una impossibilità di intervento che si lega alla situazione di problematicità sofferta, cosí tipica di questa tragedia, e porta con sé quasi un eccesso di contemplazione inerte. Troppo estatico, come lo vede Ulisse[62]

(Ei le pupille

or lagrimose, or timide, or ardenti,

finché l’ostia fumava agli immortali,

mai dal ciel non togliea),

troppo puro e distaccato dai mezzi di azione degli uomini, come lo vede Ajace[63]:

Fortunato vecchio

quasi dall’alto dell’Olimpo miri

noi tra i delitti e il sangue, onde sei puro;

e con amor di padre, indarno, ahi! guidi

le nate a delirar menti mortali.

Ma in te pur senti e in tua virtú la pace.

Calcante vive in un complesso di connotazioni piú difficilmente componibili in figura drammatica. Ma quanti motivi profondi interpreta e fa vivere nelle sue parlate! E in quella specie di melodia piú soave, che caratterizza la sua tensione di voce superiore, pia, sofferente e distaccata. E si rileggano almeno questi versi che son piú tipici per la sua posizione fra necessità del trono e amore della giustizia:

L’ara al trono s’appoggia: empj e innocenti,

leggi ed altar seppellirà s’ei crolla.

Re giusto io bramo e qual pur sia l’onoro:

ma non sarò di tirannia ministro.

Io gemerò, le dolci aure del cielo

abbandonando; ma i miei dí trascorsi

fede a me fanno che da giusto io vissi:

morrò da giusto e lo dirà il futuro[64].

Il senso della sua condizione di profeta disarmato, della sua vecchiaia[65] e di una esperienza dolorosa troppo a lungo protratta, la tensione profetica e il dolore di prevedere dolori e sventure, formano nella sua voce una singolare intonazione fatta di cadenze profonde e di melodiche trasfigurazioni della sua condizione piú contemplativa che attiva. Condizione che raggiunge il suo centro piú vivo quando egli può ammonire i due contendenti da un punto di vista superiore che antivede le conseguenze luttuose del loro operare e rivela i limiti stessi delle possibilità virtuose della natura umana. Sicché, nella lunga parlata rivolta ad Agamennone ed Ajace[66], Calcante può riassumere (come aveva già fatto a proposito della «burrascosa libertà») il punto di vista della dolente meditazione foscoliana sulla sorte degli uomini, in cui anche la virtú e la gloria sono verificate nei loro pericoli di sproporzione rispetto alle forze umane:

O forsennati, forsennati! io veggio

l’inespiata ira d’Iddio chiamarvi

a scontar con novelle orride colpe

l’iniquità de’ padri. Entro quell’urne

voi le mani sacrileghe cacciando

sangue e fiele mescete all’esecrate

ceneri – O Agamennon! gli avi tuoi crudi

e gli Dei che tu provochi, al tuo letto

vigili stanno; e tu li vedi; e serpe

negli occhi tuoi fra le lagrime il sonno

finché il terror ti desti. Empio non sei;

ebbro d’orgoglio sei. Della tua vera

gloria deh! ascondi il tumulo d’Atreo;

con le regali tue virtú la terra

consola; e il cielo alfin placa e te stesso –

E tu, mio figlio (o a me piú assai che figlio!)

obbliar vuoi che sei mortale; alzarti

oltre la inferma, sventurata, cieca

nostra natura? Splendida si mostra

virtú; ma i petti umani arde funesta

quanto è piú schietta; e appena un raggio scende

tra noi. S’innalza; già tutta rapita

al ciel l’hai tu; già del tuo lume splende

l’Universo... Ma stride dall’Olimpo

la folgore, e l’obblio teco e la lunga

notte travolve chi agli Dei s’agguaglia. –

Ma che parlo? Feroci i lumi al suolo

questi crudeli figgono.

È evidente cosí che l’Ajace, nell’incontro delle varie voci, è una grandiosa espressione poetica della meditazione foscoliana sulla vita portata a un nuovo livello di pessimismo e insieme di tensione a una dimensione superiore che cerca di scaturire da una posizione meno attiva di quella dei Sepolcri, ma piú universale ed intima, che evoca la presenza seppur vaga di un cielo e di una divinità, di una pietas dolente e contrassegnata da caratteri di fatalismo lontano da ogni forma di orgoglio prometeico e pur non privo di una volontà di recupero di prospettive umane entro valori meno impetuosi, meno eroici (ché l’eroismo piú consueto si risolve ancora in suicidio), piú intimi e sacri, il cui sviluppo sarà la nuova creazione dell’iperuranio delle Grazie.

Totale e chiara soluzione di questa posizione meditativa e problematica? No, ché la conclusione dell’Ajace si irraggia fra la posizione suicida di Ajace (ma con l’aggiunta pia e inattiva della sua ultima parlata a Teucro) e quelle di Tecmessa e di Calcante.

Tale è in se stesso l’Ajace e idealmente esso presuppone lo svolgimento nuovamente piú positivo delle Grazie e in tale doppia posizione esso vive: preannuncio delle Grazie e base di problemi su cui si giustifica l’elaborazione di valori delle Grazie e insieme ingorgo possente di motivi di per sé validi a costruire una tensione di dramma irrisolto e profondo che, a vari livelli, chiama in causa la sofferenza foscoliana di un preciso momento storico e la sua approfondita meditazione sulla natura e sulla sorte degli uomini.

Sicché chi non conosce l’Ajace, con la sua possente problematicità tradotta in scontro e incontro di vive correnti e di personaggi complessi e gremiti di spinte interne (con la sua eccezionale ricchezza di poesia, con la sua forza complessa che lo rende in qualche modo ancor piú che «bello», intenso, teso da una forza profonda e dolente e da bagliori intensi di un’armonia melodica che son come spiragli di una dimensione superiore), non conosce tutto il Foscolo e non conosce insieme un momento della sua profonda storicità e universalità e la via che piú direttamente conduce alle Grazie.


1 U. Foscolo, Tragedie e poesie minori, a cura di G. Bezzola, Ed. Naz., vol. II, Firenze 1961.

2 M. Fubini, Lettura dell’Ortis, Milano 1947, p. 21.

3 Cfr. il mio saggio Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-13.

4 Cfr. la lettera allo Schulthesius (17 agosto 1812, Ep., IV, p. 114) in cui il Foscolo dice: «Leggo tradotte alcune tragedie e la Storia dei Trent’anni di Schiller: e benché tradotte, mi invogliano a vedere se non altro la tomba di sí generoso scrittore» e poi (Ibid., p. 143) ringraziava lo Schulthesius delle «due versioni dell’inno di Schiller». E l’Orelli afferma (cfr. ibid., p. 112, nota 1) che il Foscolo «apprezza molto il nostro Schiller e mi disse che lo annovera fra gli 8 o 9 massimi poeti di tutte le nazioni e di tutti i tempi». La Ricciarda corrisponde a una volontà di forma meno classicistica, come il Foscolo esplicitamente avverte in una lettera all’Albrizzi (8 giugno 1813, ibid., p. 171): «vedrete che la Ricciarda non ha verso che non sia schiettamente italiano, senza mistura alcuna, né abbellimento di modi greci e latini». E del resto si ricordi che nell’abbozzo di dedica delle Grazie alla d’Albany (Terzo abbozzo, in Opere, vol. XII, a cura di G. Chiarini, p. 307) il Foscolo parla di una vaga intenzione di lasciare i miti classici: «Forse un giorno in altri miei versi non torneranno le deità dei gentili».

5 U. Foscolo, Prose e poesie, a cura di L. Carrer, Venezia 1842, p. XVI. Anche se il Carrer esagerò il carattere di armonia e di splendore della frase poetica del Tieste di fronte allo stile alfieriano.

6 Nel dialogo dei due fratelli nemici (atto II, scena III) si contrappone la passione generosa di Averardo per l’«infelice Italia» e la sua speranza di un suo migliore futuro («e co’ pochi magnanimi trarremo / i molti e dubbi itali prenci a farsi / non masnadieri, o partigiani, o sgherri, / ma guerrieri d’Italia») al risentito pessimismo di Guelfo che vede l’Italia fatta di «vili signori e la piú vil sua plebe» e che nel suo esasperato realismo e individualismo tirannico trova vana la speranza di un risorgimento d’Italia e sol vergognoso per il presente il ricordo del passato glorioso («la gloria altrui / splende a mostrarci abbietti»).

7 La stessa divinità è concepita solo come vendetta: «In Dio che solo a vendicarsi regna» (atto V, scena III, v. 74).

8 G. Natali, Come si legge una tragedia sbagliata, in Fronde sparte, Padova 1960, pp. 113-122. La liricità delle parlate è infatti essa stessa tutta tesa dalla forza centrale dell’impianto drammatico e dall’intima drammaticità del nucleo ideativo. Comunque il Natali ha giustamente sottolineato la grande bellezza di varie parti della tragedia.

9 Si ricordino non solo le esplicite allusioni alla campagna di Russia con l’importantissima distinzione della guerra di difesa e di offesa (specie nel brano del terzo inno, vv. 54 e ss.; ed. Chiarini: «Fu lor ventura che Minerva allora / risaliva que’ balzi, al bellicoso / Scita togliendo il nume suo. Di stragi / sui canuti, e di vergini rapite, / stolto! il trionfo profanò che in guerra / giusta il favore della Dea gli porse»), ma anche l’impetuoso abbrivo del grande passo dell’abbandono della terra da parte di Minerva dell’inno III in cui l’allusione attuale, lungi dal costituire una turbatrice nota polemica (come appare al Fubini, cfr. Lettura della poesia foscoliana, Milano 1949, p. 136), è niente altro che la base necessaria di slancio del quadro supremo dell’Iperuranio e l’espressione altissima di sentimenti storico-personali fatti profonda poesia.

10 Atto I, scena III, vv. 142-147.

11 Atto II, scena I, vv. 47-50.

12 In U. Foscolo, Opere, V, p. 531.

13 E si ricordino, quanto alla consapevolezza del Foscolo di avere immesso nell’Ajace gli elementi piú profondi del suo animo e della sua sofferenza attuale, le parole della lettera al Ciciliani (26 luglio 1812, Ep., IV, p. 6): «Fa di poter leggere il mio Ajace grecamente e magnanimamente scritto: non dico eloquentemente, perché io non posso, se non dopo molto tempo, discernere come mi abbia aiutato l’ingegno; ma certo che ci è tutta l’anima mia, e liberamente espressa, per quanto, anzi di piú di quanto comportano i tempi». Quanto alla presenza di letture di altre tragedie dello stesso soggetto si può solo osservare che l’accenno del Viglione (F. Viglione, Sul teatro del Foscolo, Pisa 1904, pp. 33-35) circa la lettura foscoliana dell’Ajax del de Sivry è assai incerto. Quanto all’Ajace sofocleo, l’opinione del Flori (E. Flori, Il teatro di U. Foscolo, Bologna 1955, pp. 105, 109), che nega ogni sua incidenza sulla tragedia foscoliana, va precisata e corretta in questo senso: novità assoluta della tragedia foscoliana rispetto allo schema sofocleo, suggestioni vaghe nella costruzione del personaggio di Tecmessa e in alcuni elementi del suo dialogo con il marito (specie nel suo invito a lui a considerare la situazione desolata in cui egli, con la sua morte, lascerebbe lei, il figlio, la vecchia madre) e piú chiari riflessi nella tensione suicida e nelle ultime parlate del protagonista (cfr. a p. 127: «Vado ove andar deggio»: e Sofocle: «Là intanto io vado! ove per me si dee»), soprattutto nell’ultimo saluto al sole (cfr. Sofocle, Tragedie, trad. F. Bellotti, Milano 1928, p. 180: «O tu, di questo dí splendida luce, / e tu, sole aurigante, io vi saluto...»).

14 Del resto il Foscolo, mentre scriveva l’Ajace, era ben consapevole degli elementi che potevano rendere quella tragedia sospetta alle autorità sospettosissime del Regno Italico. Cfr. la lettera all’Albrizzi del 14 maggio 1811 (Ep., III, p. 513): «Temo che non la lascino recitare, tanto è severa l’inquisizione, e tanto si paventano le allusioni ad ogni vocabolo di patria e di re». E nella stessa lettera egli dice che passava «per repubblicano ostinato, capo di opposizione, inglese travestito da italiano e quasi vessillifero della legione dell’anarchia».

15 Si ricordi come negli anni delle Grazie il Foscolo rappresentò Didimo quale anticosmopolita ed anzi (mentre il protagonista del Sesto tomo non poteva farsi persuadere dalla lezione cosmopolitica di Diogene, ma configurava la sua situazione in proposito come una lotta fra cuore e ragione) Didimo «si rizzava senz’altro se tal uno (com’oggi s’usa) professavasi cosmopolita» (Prose varie d’arte, a cura di M. Fubini, Firenze 1951, p. 183). Nelle lettere di questi anni spesso ritorna il motivo della sua passione nazionale-unitaria: cfr. lettera al Grassi, 28 gennaio 1811 (Ep., III, p. 493); lettera all’Albrizzi, 23 maggio 1810 (ibid., p. 389) («I miei concittadini si accorgeranno ch’io parlo per l’amore dell’Italia di cui vo diventando sempre piú martire»).

16 Cfr. lettera a G.B. Giovio, 22 aprile 1809 (ibid., p. 139): «La guerra arde frattanto vicino alle mie messi; e a dirle il vero io non amo né con la ragione né col cuore gli Austriaci». La corrispondenza con la d’Albany nel ’14 sarà cosí imperniata sul dissenso fra la contessa antinapoleonica e filoaustriaca e il Foscolo antinapoleonico, ma insieme avverso agli Austriaci e al ritorno del vecchio ordine.

17 Come vedremo poi, nella ricchezza di prospettive dei singoli personaggi, Calcante ha anche un elemento di sacerdotale fede nella divina origine dei troni. D’altra parte nelle prime intenzioni del Foscolo non mancava persino quella di sviluppare (nella voce di Agamennone) il motivo della scelleratezza dei sacerdoti (cfr. Appunti labronici, in Tragedie e poesie minori cit., p. 211: «Voi stessi foste l’origine dell’irreligione osservando i regi e i popoli quali innumerevoli infamità d’ogni genere furon commesse in nome degli dei»).

18 Cfr. Opere, Ed. Naz., VII, Firenze 1933, pp. 169, 172, 179. Ma nella conclusione dell’orazione vanno ricordate e l’affermazione dell’esistenza di «due forze che compensano tutte le tendenze guerriere ed usurpatrici dell’uomo: la compassione ed il pudore, forze educate dalla società ed alimentate dalla gratitudine e dalla stima reciproca» (p. 184), e la persuasione di aver fondato su opinioni realistiche un’esperienza e un criterio di condotta piú solidi e validi per una società piú coraggiosa e civile (p. 185).

19 Le lettere al Giovio costituiscono un capitolo di singolare bellezza e importanza nell’epistolario foscoliano e, negli anni fra i Sepolcri e l’Ajace, soprattutto dal 1807 al 1811, rappresentano una fonte essenziale per la conoscenza del vivo pensiero foscoliano, dei suoi problemi e delle sue soluzioni circa la vita e la morte, la politica e la morale, in una discussione leale e affettuosa con un uomo cosí diverso, ma aperto e onesto. Importantissime soprattutto circa il problema religioso e filosofico (cfr. le lettere del 1809: Ep., III, pp. 41-42, 82-83, 145 e ss., 183, 481-482, 536) e gli inerenti temi della noia (Ibid., II, pp. 474-475), delle rimembranze e delle illusioni (ibid., III, p. 13), della realtà ferrea delle cose (Ibid., pp. 174-175), della disprezzantropia (ibid., p. 300).

20 Atto II, vv. 145-146.

21 Atto V, scena IV, vv. 286-303.

22 Non c’è dubbio in proposito, e all’incupirsi fatalistico e al liberalismo troppo legato alla forza può corrispondere in parte la linea che il De Sanctis notò dopo i Sepolcri: ma a patto, e cosí per la poesia delle Grazie (dove è anche un certo eccesso di metafisico), che ben s’intenda tutto ciò nelle sue possibilità di problematicità sempre viva nel Foscolo e nella sua radice di possibile poesia.

23 Si noti, per inciso, come l’indicazione crociana di una lettura lirica delle opere teatrali e l’opposta esigenza di molti critici teatrali (D’Amico ecc.) di una indispensabile prova di verifica assoluta della validità dei drammi sulla scena abbiano contribuito a rendere spesso particolarmente incerta e difficile la valutazione dei testi drammatici. Cfr. la mia Poetica, critica e storia letteraria cit., sia alle pp. 104-116 sia a p. 48, nota, con l’accenno anche al problema della poetica cinematografica (e si pensi in proposito alle molte riprese in tal senso da parte di collaboratori di «Cinema Nuovo»).

24 Atto II, scena I, vv. 45-50: «Veraci e sante le parole mie / t’erano allor che per l’ignoto Egeo / attraverso le folgori e la notte / trassero tanta gioventú che giace / per te in esule tomba, o per te solo / vive devota a morte».

25 Atto I, scena I, vv. 20-26.

26 Atto I, scena IV, vv. 212-222.

27 Atto IV, scena II, vv. 74-77.

28 Atto IV, scena IV, vv. 124-129.

29 Atto V, scena I, vv. 99-103.

30 Polinice, atto V, scena I, vv. 22-28: «Ma che sarà... Subitamente in campo / il fragor cupo dell’armi cessò... / Al suon tremendo un silenzio tremendo / succede... Che reo silenzio! a me presago / di sventura piú rea! Chi sa?... sospesa / la pugna han forse... oimè!... forse a quest’ora / compiuta l’hanno».

31 Cfr. Avvertimenti premessi al Rito delle Grazie spedito al viceré Eugenio (Opere, XII, p. 344) in cui il Foscolo parla della sua volontà di togliere i brani lirici dall’Ajace nella sua pubblicazione.

32 E Agamennone infatti commenta: «Stupefatto il membri / parmi... tu» ecc. Ciò che obbliga Ulisse a un ragionamento un po’ contorto.

33 Atto III, scena III, vv. 80-97.

34 Atto II, scena I, vv. 74-93.

35 È del resto sui caratteri e sulle passioni che li animano che il Foscolo piú insisteva nella importante lettera al Pellico del 23 febbraio 1813 (Ep., IV, pp. 214 e ss.) in cui la stessa trama dell’azione è configurata come serie organica di «accidenti» che «ridestino quelle antiche passioni e le facciano operare fortemente in que’ forti caratteri». Quanto ai caratteri egli appunto sottolineava l’incontro in essi di naturalezza e di «deformità ideale» e la necessità di grandi passioni radicate da tempo nei caratteri (incontro di vero e di mirabile: dove è una delle radici di dissenso della posizione foscoliana da quella romantica ufficiale – si ricordi il discorso Della nuova scuola drammatica in Italia – e piú vicina invece alla poetica hölderliniana della tragedia con i suoi legami con l’epica e la lirica) nonché sulla loro «discordia armonica» che egli ritrovava nei personaggi dell’Ajace. Né si trascuri in questa presa di posizione di poetica tragica il rilievo dato al fatto che lo stile tragico deve essere «alto e confinante quasi col lirico» e si avrà una giustificazione chiara dell’impegno e delle caratteristiche dell’Ajace poeticamente assai realizzate, se pur si ammetta che la ricchezza di connotazioni psicologiche e ideali dei personaggi e la complessità della tela (cosí corrispondenti al carattere problematico dell’Ajace) discordano dalla mira foscoliana al semplice, meno raggiunto e causa di limiti teatrali di quella grande opera.

36 Atto II, scena I, vv. 129-130.

37 Cosí nel dialogo con Teucro, fondamentale per la macchina dell’azione (atto I, scena V), Ulisse fa giocare abilmente come remora sollecitante l’eroismo di Teucro, la propria compassione per il rischio della sua giovane vita e il proprio sentimento paterno.

38 Atto I, scena III, vv. 35 e ss.

39 Ibid., vv. 86-87.

40 Atto II, scena III, vv. 49 e ss.

41 Atto II, scena XI, v. 347.

42 Atto II, scena IV, vv. 57-58: «... Gli prorompean le lagrime! – Ma dentro / l’ambizion co’ suoi rimorsi ei pasce».

43 Vv. 96-104.

44 Vv. 138-153.

45 Come la sorpresa che lo coglie quando gli si prospetta la possibilità che Ajace lo disprezzi: «Disprezzar – me?» (atto I, scena III, v. 178).

46 Si vedano i vv. 53-55 dell’atto I, scena II, o i vv. 293 e ss. della scena XI del II atto o i vv. 31 e ss. del III atto, scena III. L’ossessione del sacrificio di Ifigenia segue coerentemente lo svolgimento della figura di Agamennone fino al IV atto (scena VI, vv. 311-322), quando il personaggio scompare per riapparire solo alla fine della tragedia con la battuta finale piú volte ricordata.

47 Atto II, scena V, vv. 193, 166-167, scena VII, v. 262.

48 Atto II, scena VII, vv. 262-266: «Già i miei fati m’incalzano: se fissa / han la rovina mia, tu pur che m’eri / e padre e specchio di virtú fra tanta / comun viltà, tu i fati miei seconda».

49 Atto II, scena IX, vv. 286-287.

50 Atto II, scena XI, vv. 383-386: «Ma le tue doti a noi che pro? per esse / vedo piú sempre conculcata l’alta / dignità de’ mortali, e dar lor nome / di greggia».

51 Ibid., vv. 396-398: «Ma inviolato a me sarà il decreto / qual ch’el pur sia de’ regi; ov’altri il rompa, / a vendicarlo io nuoterò nel sangue». Dove ritorna un’immagine che ossessionava il Foscolo fin dall’Ortis e dal Sesto tomo (il nuotare, attraverso il sangue, verso la libertà o verso il potere assoluto).

52 «Te ambizion, me libertà sospinge, / livor costui» (dice di Agamennone, di se stesso e di Ulisse, atto III, scena IV, vv. 289-290).

53 Ibid., vv. 259-261.

54 Atto IV, scena VII, vv. 316-321.

55 Si rilegga in proposito quella lettera al Serbelloni (Ep., IV, pp. 363-366, 27 settembre 1813) che è basilare per la comprensione del valore che la femminilità aveva raggiunto nel Foscolo in questi anni, ben al di là del sacerdozio dell’«aurea beltate» e di Venere, della seconda Ode. «Le donne sono per lo piú migliori di noi, perché sono educate alla compassione e al pudore assai piú di noi, e sono create all’Amore, che quando è nobile e dolce, raddolcisce e nobilita tutti i sentimenti dell’uomo».

56 Atto IV, scena V, vv. 185-190.

57 Atto V, scena I, vv. 15-38.

58 Ibid., vv. 47-72.

59 Atto V, scena II, vv. 153-170.

60 Per l’atteggiamento di Ulisse si ricordino i versi già citati (129-130 dell’atto II, scena I); per la profezia su Clitennestra, i versi 88-90 dell’atto V, scena I: «E un iddio, / manifesto un iddio serba la vita / d’Agamennone a piú funeste mani! –».

61 Atto II, scena V, vv. 208-221.

62 Atto III, scena III, vv. 12-15.

63 Atto II, scena V, vv. 220-225.

64 Atto II, scena VII, vv. 267-274.

65 Cfr. in proposito atto II, scena I, vv. 1-2 e 42 e ss.

66 Atto IV, scena V, vv. 242-269.